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NCR 102A | Ferranti Mark 1 | Olivetti ELEA 9001 | Olivetti ELEA 9003 |
Olivetti ELEA 6001 | Olivetti ELEA 4001 | CEP | Olivetti P101 |
Nei primi anni '50 il computer era in Italia ancora un oggetto assolutamente sconosciuto, non solo per le masse. Nessun dipartimento universitario o ricercatore italiano si era mai avvicinato ad un elaboratore elettronico: in quegli anni l'Italia usciva da una condizione di pesante isolamento culturale e quelle erano primizie mastodontiche solo dei centri di ricerca d'oltre Oceano o d'oltre Manica. Infatti, il connubio fra trattamento dell'informazione ed elettronica cominciava appena ad essere studiato in alcuni laboratori universitari ed applicato su scala industriale da parte di pochissime aziende (IBM, Sperry, Burroughs, Ferranti).
Il primo calcolatore installato in Italia è l'NCR 102A dell'americana NCR,
acquistato nel 1954 dall'INAC (Istituto Nazionale per le applicazioni del
calcolo) del Politecnico di Milano, con gli
stanziamenti previsti dell'European Recovery Program, il cosiddetto Piano Marshall per la
ricostruzione dell'Europa dopo la guerra.
Non esistendo distributori, il prodotto bisognava andare a prenderselo direttamente in
fabbrica: dopo aver seguito tutte le pratiche di acquisto e di spedizione a Los Angeles,
l'ing. Luigi Dadda del Politecnico seguì il computer che venne imbarcato sulla nave in
partenza per Genova. Alla Dogana di Genova l'unico intoppo di tutta l'operazione: la
Guardia di Finanza, non sapendo come classificare l'elaboratore in quanto merce
sconosciuta, blocca tutto per ore. Alla fine fu trovata una soluzione: essendo un
elaboratore a valvole, poteva essere assimilato ad una radio e per importarlo bastava
applicare un bollino su ogni diodo, operazione un po' lunga in quanto il calcolatore ne
aveva ben 6.000.
La scelta del 102A fu motivata da vari fattori, principalmente il budget di 115.000
dollari, ma anche per il fatto che la macchina fosse stata progettata al prestigioso
MIT e che
in seguito era stata studiata anche dal National Bureau of Standards. Era formato da 650
valvole, con una memoria di 1.024 posizioni; ogni due ore circa si guastava, e siccome non
esistevano centri di riparazione andava aggiustata in proprio, con lunghi tempi morti.
Il calcolatore fu utilizzato fino all'inizio degli anni '60 dall'Università ma anche
dalle industrie private: la Pirelli studiava i campi elettrici passanti nei cavi, la
Edison lo utilizzava per i calcoli delle dighe.
Storia simile è quella dell'elaboratore inglese Ferranti
Mark 1, acquistato dall'Istituto Nazionale per le Applicazioni del Calcolo del CNR ed
installato a Napoli nel 1955.
Il calcolatore, progettato dall'Università di Manchester e funzionante già dal 1948, fu
commercializzato dalla Ferranti che ne vendette 9 esemplari, di cui 3 fuori
dall'Inghilterra. Conteneva 4.000 valvole, 100.000 giunti saldati e 10 chilometri di cavi;
costava 300 milioni di lire, provenienti dai fondi del piano Marshall e del CNR. Ma era
una macchina talmente grande (10m di lunghezza per 6 di larghezza) che non era arrivata
tutta insieme, ma in una specie di scatola di montaggio: ci volle circa un anno perché 3
tecnici inglesi e 3 italiani, diretti dall'ing. Giorgio Sacerdoti, riuscissero a
terminarne la ricostruzione.
Le parti che componevano il calcolatore erano diverse, ma quelle che davano maggiori
problemi erano i tubi Williams a raggi catodici, che formavano la memoria: ogni mattina
bisognava ritararli.
Quasi tutti i centri di calcolo universitari in Italia seguirono questa direzione,
acquistando elaboratori già pronti sul mercato: d'altra parte l'interesse era per le
applicazioni e non tanto per la progettazione.
In questo panorama scarsamente propositivo si inserì l'Olivetti, con l'intenzione di
creare un'alternativa tecnologica al predominio d'oltreoceano che già stava delineandosi
in quegli anni.
L'Olivetti, negli anni '50, era una florida azienda in grande espansione: ritmi di
crescita annuali compresi fra il 20 e il 42%, presenza in 177 paesi con 26 organizzazioni
commerciali dirette e 108 agenti indipendenti, 9 stabilimenti in Italia e 9 all'estero,
25.000 addetti, 30% delle vendite mondiali di macchine da scrivere, oltre un terzo delle
macchine addizionatrici e contabili. In Italia sfiorava il 90% del mercato, mentre aveva
quasi il monopolio in Spagna e Messico. I suoi prodotti meccanici per la contabilità, la
scrittura ed il calcolo erano noti in tutto il mondo per la genialità della concezione e
l'originalità del design.
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Adriano Olivetti, presidente dell'azienda dal 1938, era un uomo romantico,
intraprendente, lucido nella pianificazione delle strategie; un uomo che, col suo carisma
e le sue doti manageriali riusciva a guidare l'unica vera multinazionale italiana con gli
strumenti propri di una piccola azienda ottocentesca.
In quegli anni l'elettronica era estranea non solo alla pratica ma soprattutto alla
mentalità dei dirigenti e dei progettisti, che ritenevano assurdo, con il tipico modo di
pensare italiano, investire in risorse umane nella ricerca quando le cose andavano già a
gonfie vele con i prodotti meccanici.
Per Adriano Olivetti non era così: capì che l'elettronica era un potenziale elemento di
disturbo sul cui terreno l'azienda non poteva trovarsi impreparata; per questo ritenne
importante investire in questo settore estremamente avanzato e altrettanto rischioso, con
una risolutezza ed una determinazione che molti definirono follia.
Ma l'obiettivo strategico non era certo realizzare un'alternativa elettronica alle
macchine da calcolo prodotte dall'azienda, cosa peraltro impossibile con le tecnologie
dell'epoca. L'idea era di avviare un processo di vera e propria trasformazione
dell'azienda nella direzione dell'elaborazione elettronica dei dati, per poi riuscire ad
avere un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti, prevalentemente giapponesi, quando
la tecnologia avesse offerto soluzioni anche per le piccole macchine da calcolo.
Il primo passo fu l'accordo commerciale con la francese Compagnie des Machines
Bull, col
quale si creò la società Olivetti-Bull incaricata della vendita ed assistenza in Italia
degli impianti meccanografici (ed in seguito degli elaboratori) che la ditta d'oltralpe
progettava e costruiva.
Per Olivetti ciò significava il primo incontro col trattamento automatico dei dati, che
anche se di natura prettamente meccanica rappresentava comunque un primo prepararsi alla
successiva elaborazione elettronica delle informazioni: niente passi azzardati quindi, ma
un percorso graduale.
Nel 1952 Olivetti costituì un laboratorio di ricerche elettroniche a New Canaan, negli
Stati Uniti, con lo scopo di creare un osservatorio che prendesse coscienza delle nuove
tecnologie là dove esse si stavano più rapidamente sviluppando: nello stesso anno l'IBM
lanciava il mod. IBM 701 interamente a valvole.
Due anni più tardi, nel 1954, si creò nel nostro paese l'occasione giusta per dare
l'avvio all'avventura informatica in Italia, con l'appoggio dell'Università di Pisa.
Questa, in vista della realizzazione di un elettrosincrotone che poi fu costruito a
Frascati, aveva ricevuto un generoso contributo di 150 milioni dai comuni di Pisa, Lucca e
Livorno (circa 3.200 milioni attuali): denaro che non sarebbe stato giusto rifiutare, e
che andava quindi impiegato in qualcosa che fosse utile al nostro paese. Enrico Fermi,
consultato sull'argomento, consigliò la costruzione di un calcolatore elettronico, del
quale si sarebbero avvantaggiate tutte le scienze e gli indirizzi di ricerca.
La macchina, se costruita in Italia, sarebbe costata 120-140 milioni, mentre per
l'acquisto sarebbe stato necessario disporre perlomeno del quadruplo, senza contare
l'esperienza che i ricercatori avrebbero accumulato nel settore informatico.
Fu quindi siglato un accordo di collaborazione economica e tecnologica con l'Olivetti per
la costruzione del calcolatore elettronico; l'accordo prevedeva dapprima la formazione di
un gruppo misto di ricercatori universitari/ingegneri Olivetti, per la progettazione
dell'architettura di base. In seguito i due gruppi si sarebbero divisi: da una parte
l'Università di Pisa, più attenta agli obiettivi di ricerca e didattici, avrebbe dato
vita alla CEP (Calcolatrice Elettronica Pisana), terminata nel 1960; l'Olivetti avrebbe
invece creato nel 1955 il suo Laboratorio di Ricerche Elettroniche, il cosiddetto "gruppo di
Pisa", costituito da giovani laureati e tecnici specializzati diretti dall'ing.
Mario Tchou, con lo scopo di realizzare il prototipo di un calcolatore commerciale utilizzabile
a scopi generali.
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Mario Tchou (1924-1961), figlio dell'ambasciatore cinese a Roma, aveva conseguito giovanissimo la
laurea in ingegneria elettronica negli Stati Uniti, alla Columbia University, dove era
rimasto per alcuni anni come ricercatore e docente; oltre a spiccate capacità tecniche e
manageriali, possedeva qualità umane e carisma fondamentali per guidare un manipolo di
pionieri.
Il gruppo di giovani "pionieri" del Laboratorio, selezionato accuratamente da
Tchou fra le numerose risposte ad annunci pubblicitari sui maggiori quotidiani, ebbe sede
a Barbaricina, nella campagna alle porte di Pisa. Del gruppo quasi esclusivamente italiano
facevano parte tra gli altri Giorgio Sacerdoti (che aveva da poco terminato
l'installazione a Napoli del Ferranti Mark 1), Ettore Sottsass jr. (architetto e designer
di successo), Remo Galletti e Franco Filippazzi (con anni d'esperienza nel settore
elettronico), Piergiorgio Perotto (appena laureato, ma in seguito trainer del settore), Martin Friedmann
(canadese, esperto di memorie a nuclei di ferrite).
Quasi tutti giovani, secondo lo spirito di Tchou: "Le cose nuove si fanno
solo con i giovani. Solo i giovani ci si buttano dentro con entusiasmo, e
collaborano in armonia senza personalismi e senza gli ostacoli derivanti da una
mentalità consuetudinaria".
La fascia di produzione fu quella medio-alta perché così imponeva il mercato di quei tempi: non fu possibile produrre calcolatori di dimensioni ridotte, che più si sarebbero integrati con i tradizionali campi d'azione della società.
Il primo calcolatore elettronico progettato ebbe naturalmente tecnologia a valvole: il
mastodontico prototipo, denominato "Macchina Zero" o "1V", fu pronto e
funzionante nelle sue componenti già dai primi mesi del 1957; esso prese successivamente
il nome ufficiale di ELEA 9001 (Elaboratore Elettronico Automatico).
In quello stesso periodo si affacciava però sullo scenario tecnologico il rivoluzionario
transistor: era allora un oggetto ancora raro, con vistose limitazioni e prestazioni
ridotte. Il suo uso era in pratica limitato alle radioline, che costituivano a quel tempo
ancora una primizia.
Ma Tchou intuì che quella sarebbe stata nel futuro la tecnologia vincente. Di conseguenza
si decise di riprogettare il sistema ormai quasi terminato, sostituendo i transistor alle
valvole; fu una decisione coraggiosa, un rischio non proprio calcolato e, alla prova dei
fatti, la scelta giusta.
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La transistorizzazione del progetto pose non pochi problemi: se le valvole erano ben note ai progettisti, altrettanto non si poteva dire del nuovo componente, che tra l'altro era ancora molto costoso. Tuttavia l'impresa riuscì, e mentre la macchina "1V" veniva completata per essere usata nei test, nasceva un nuovo sistema d'elaborazione inizialmente ibrido (ELEA 9002, mai entrato in funzione) e quindi completamente a transistor: ELEA 9003 o "1T".
Intanto Olivetti, per non dipendere più dagli umori delle aziende statunitensi
produttrici di componenti elettronici, aveva fondato nel 1957 in partecipazione con
Telettra la SGS (Società Generale Semiconduttori), con lo scopo principale di fornire ai
due azionisti diodi e transistor di qualità professionale per la produzione di
calcolatori in Olivetti e apparecchi per telecomunicazioni in Telettra.
Anche questa fu una scelta quantomeno azzardata: se la costituzione di un laboratorio di
ricerche per apparecchiature elettroniche era stato un traguardo arduo, ancora di più lo
appariva avviare parallelamente la produzione di componenti elettronici solidi.
Nell'autunno del 1958 il prototipo "1T" era prossimo alla conclusione: il gruppo
di Barbaricina si trasferì per comodità nella nuova sede di Borgolombardo, alle porte di
Milano, vicino al mondo delle industrie per le quali lavorava. Finiva così la fase
pionieristica dell'operazione, iniziava lo sviluppo commerciale.
Quasi contemporaneamente terminava anche lo sforzo dei ricercatori dell'Università di Pisa: il prototipo ridotto della CEP era già funzionante, mentre la macchina vera e propria fu terminata verso gli inizi del 1961, con un ritardo di circa un anno sul tempo previsto dal piano di lavoro.
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La CEP era un colosso dell'elaborazione scientifica, con tecnologia ibrida (3.500
valvole, 2.000 transistor, 12.000 diodi), memoria da 8.192 posizioni ampliabile a 32.768,
velocità di 70.000 operazioni al secondo. La programmazione avveniva principalmente in
FORTRAN, linguaggio particolarmente adatto per calcoli scientifici, già sviluppato
dall'IBM per il mod. IBM 704, che era il calcolatore della classe della CEP più diffuso al
mondo: il linguaggio fu adattato e implementato per utilizzare appieno le particolari
caratteristiche logiche della CEP.
Erano passati ben sei anni dalla partenza del progetto, e dai soli due calcolatori
installati in Italia si era passati a contarne 22, con 17 ordinazioni già effettuate.
Questa situazione fece pensare ad alcuni che se fosse stata costruita in tempo la CEP
avrebbe avuto una più grande valenza scientifica. Questo è vero, ma non va dimenticato
il valore che questa impresa ebbe per l'immagine dell'Italia e in particolare per
l'Università di Pisa, tanto che per molti anni l'informatica italiana fu associata alla
città toscana, nella quale fu stabilito nel 1969 il primo corso di laurea in Scienza
dell'Informazione e dove si continua tutt'oggi a fare ricerca.
La CEP rimase attiva per sette anni, utilizzata dalle 2.000 alle 4.000 ore l'anno.
Intanto, per la fine del '59 il sistema Olivetti ELEA 9003 venne messo a punto ed entrò in funzione una linea per la produzione in serie. E' interessante notare che da questo momento in poi l'Olivetti si impegnava direttamente nella realizzazione di tutte le unità periferiche elettromeccaniche, coinvolgendo in questo sforzo anche la sede di Ivrea: Olivetti si accingeva a trasformarsi in azienda hi-tech, che non produceva più solo apparecchi meccanici ma anche stampanti parallele, lettori di nastri e schede, fatturatrici, convertitori.
Il punto debole stava proprio nell'ampiezza eccessiva del fronte su cui doveva
manovrare, ampiezza che sarebbe pesata in modo evidente dopo pochi anni.
Una particolare cura venne data, secondo la tradizione Olivetti, al design del 9003.
Adriano Olivetti soleva affermare che "il design è l'anima di un prodotto": la
sua attenzione ai dettagli era poi maniacale ed il buon gusto era a lui riconosciuto anche
dalla critica. Nel generale grigiore dei prodotti italiani, Olivetti considerava le
macchine come elementi non a sé stanti, ma integrati con l'ambiente e le necessità
umane. I calcolatori, fino ad allora considerati oscure macchine da ufficio, anonime ed
inespressive, dovevano diventare elementi d'arredo, strumenti con cui si doveva interagire
con facilità, che avessero una propria dignità e bellezza estetica oltre che funzionale.
Questo concetto di rapporto tra macchina e gente che vi lavora è rivoluzionario e segue
una linea che in America in quegli anni stava trasformando i calcolatori elettronici in
enormi radio, televisori o frigoriferi, da cui riprendevano forme, tipi e colori.
Il design del 9003 si ispirò al gusto italiano, esaltando la centralità dell'uomo. I
cabinet erano assai meno alti dei massicci armadi allora in uso, in modo da facilitare la
percezione visuale dell'intero sistema, mentre i collegamenti tra i cabinet erano
realizzati mediante un originale sistema di canali che correvano sopra di essi. Questo
sistema consentiva di evitare ripavimentazioni in pannelli per passarvi sotto cavi e
condutture per la ventilazione. Inoltre la particolare struttura dei cabinet ad
"ali" separabili consentiva un facile trasporto e la possibilità di adeguarsi
velocemente ad ambienti già predisposti dal cliente senza dover affrontare opere di
sistemazione troppo onerose e lunghe.
Si passava dunque al concetto di calcolatore come macchina fisicamente e strutturalmente
indipendente dallo spazio circostante, suscettibile di eventuali spostamenti e
trasformazioni. Anche la console era concepita con cura, in modo da permettere la massima
flessibilità nella composizione dei tasti e delle segnalazioni.
Si può affermare che ELEA 9003 era un sistema all'avanguardia per il suo tempo, sia per
le soluzioni tecnologiche che per la concezione sistemistica. Basti in proposito pensare
che era in grado di operare in multiprogrammazione e aveva capacità di interrupt in
un'epoca in cui il termine non era ancora stato coniato. Il 9003, che seguiva la logica
binaria, lavorava alla velocità di oltre 100.000 operazioni al secondo, con una memoria a
nuclei magnetici da 20.000 posizioni ampliabile a 160 mila, affiancata da un massimo di
tre tamburi magnetici sui quali risiedeva il software di base di utilizzo più frequente.
Il calcolatore, grazie alla dimensione generosa della sua memoria, fu uno dei primi a
essere dotato di strumenti software efficienti e versatili, in un'epoca in cui non si
poteva operare che a "livello macchina" e quasi tutti gli sforzi erano destinati
alla produzione di hardware.
Le informazioni potevano essere introdotte mediante schede perforate, banda di carta
perforata, nastri magnetici, tastiera manuale d'interrogazione; potevano essere estratte
sugli stessi supporti oltre alla stampante parallela veloce da 300 o 600 linee al minuto.
Molta importanza fu data dai progettisti ai nastri magnetici: per le loro caratteristiche
di consentire l'immagazzinamento d'una gran quantità d'informazioni in poco spazio, di
essere asportabili in forma di bobine e di poter fornire o prelevare informazioni dal
calcolatore a gran velocità, i nastri possono anche servire come supporto intermedio
delle informazioni tra il calcolatore e gli organi periferici più lenti.
Nascono così alcune apparecchiature di conversione off-line, cioè non direttamente
connesse al calcolatore, che consentono di migliorare le prestazioni complessive del
sistema quando il flusso di dati entranti o uscenti è particolarmente grande:
convertitori da scheda perforata a nastro magnetico, da banda perforata a nastro
magnetico, da nastro magnetico a stampante.
Per dare un'idea del perché un tale modo di procedere risultasse conveniente si può
osservare che un'entrata da banda perforata avviene a circa 800 caratteri al secondo, da
scheda a 330, mentre da nastro fino a 90.000 caratteri al secondo: convertendo tutto su
nastro l'elaboratore sarebbe rimasto impegnato per le obbligatorie operazioni di I-O il
tempo strettamente necessario, le conversioni potevano essere effettuate tranquillamente
off-line mentre l'elaboratore proseguiva in altre elaborazioni.
(Ricordiamo che il 9003, data la sua grande capacità elaborativa, era una macchina
ammortizzabile nel costo (fra i 300 e i 500 milioni di lire) solo da aziende con migliaia
di dipendenti e notevole giro d'affari, per cui il tempo d'elaborazione andava sfruttato
il più possibile).
Inoltre il nastro può essere riutilizzato, è duplicabile facilmente per creare copie di
sicurezza, occupa poco spazio (una bobina è l'equivalente di 50 cassetti riempiti con
3.000 schede l'uno).
Quindi l'unità centrale del 9003 aveva alle sue dipendenze un notevole numero d'organi
periferici, capaci di lavorare parallelamente in autonomia o integrandosi nel flusso
informativo: ognuna di queste unità era progettata e costruita in Olivetti, dall'analisi
allo studio del più piccolo dettaglio, grazie all'enorme sforzo a cui si era sottoposta
l'azienda di Ivrea dal 1955.
Ma quello che più rese grandiosa l'impresa fu che tutto si basò su conoscenze ed
esperienze dei singoli ingegneri, non su un know-how radicato, in quanto in Italia non
esisteva retroterra culturale né in campo elettronico né tantomeno in quello della
programmazione.
Eppure l'immenso lavoro di ricerca e sviluppo realizzato in quegli anni in Italia, da
italiani, in un'azienda italiana, in maniera assolutamente autodidatta, pionieristica e
secondo alcuni avventata ma con totale abnegazione e serietà, portò a risultati
inaspettati, assolutamente originali ed estremamente funzionali, efficaci e competitivi.
Tutto questo senza aver mai fatto ricorso alla tecnica, allora già collaudata e
consolidata dalle grandi aziende italiane, di ottenere contributi diretti o indiretti
dallo Stato. Anzi era accaduto che in varie occasioni i grandi enti, le società a
partecipazione statale, a parità di condizioni, avevano preferito ordinare calcolatori
IBM, proprio mentre gli organismi federali statunitensi rifiutavano di acquistare prodotti
dalla Underwood, controllata dall'Olivetti, perché straniera.
Il primo esemplare prodotto venne installato alla Marzotto alla fine del 1959, un mese
dopo la presentazione ufficiale alla Fiera di Milano. Seguirono poi Monte dei
Paschi, Cogne, Fiat... Adriano Olivetti arrivò addirittura a regalare un ELEA
9003 al Ministero del Tesoro: anziché ricevere stanziamenti fu l'azienda che si
dimostrò munifica nei confronti dello Stato italiano!
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Nel 1961, quando ormai oltre 40 esemplari dell'ELEA 9003 erano stati venduti, fu
lanciata una sua versione ridotta, il mod. ELEA 6001, con prestazioni e costi inferiori e
orientato più alla soluzione di problemi scientifici. Il target del 6001, venduto con
successo dal '61 al '65 in centinaia di esemplari, era il piccolo ente, la filiale di una
grande azienda, la piccola industria, il centro di ricerca, il dipartimento universitario
che avessero necessità di una fonte di calcolo autonoma, ma con caratteristiche prestazionali di medio calibro. L'elaboratore, con una memoria centrale di 10.000
posizioni ampliabili a 100.000, poteva essere comunque connesso a qualsiasi periferica
già prodotta per il fratello maggiore 9003.
Nel frattempo, per far fronte alle richieste del mercato, era nata la Divisione
Elettronica Olivetti, con vari stabilimenti nella Lombardia e nel Piemonte.
Ma gli anni '60 cominciarono male per l'Olivetti. Nel 1960 morì Adriano Olivetti,
anima della società e convinto propulsore dell'introduzione dell'elettronica
nell'azienda. E l'anno dopo morì in un incidente stradale anche Mario Tchou, capo della
divisione informatica e principale artefice dei successi di quegli anni. Come se non
bastasse, gli investimenti fatti per acquisire l'americana Underwood come testa di ponte
nel mercato informatico avevano indebolito la posizione finanziaria dell'azienda.
L'indebitamento superava i 200 miliardi di lire e l'attività informatica soffriva della
ristrettezza del mercato italiano, nel quale si preannunciava la fine del boom economico:
occorreva un salto di scala sia per coprire le ingenti spese di ricerca e sviluppo ormai
necessarie, sia per garantire una massa critica sufficiente.
Il comitato di risanamento, in cui entrarono Fiat, Pirelli, Centrale, Mediobanca e IMI, giudicò che
Olivetti non avesse le forze per allargare il proprio mercato informatico; questa opinione
fu d'altra parte quella del consiglio d'amministrazione, che dopo la morte
dell'avanguardista Adriano Olivetti sognava un rientro alla grande sul mercato dei
prodotti meccanici tradizionali.
Venne quindi decisa la cessione delle attività informatiche (allora in perdita) alla
General Electric che, decisa ad entrare in forze nel mercato, aveva nel frattempo
acquisito anche la Bull, ad un prezzo che molti definirono un regalo. Così nel 1964 venne
costituita la OGE, Olivetti-General Electric, con l'azienda americana che controllava il
75% delle azioni. Solo oggi ci si può rendere conto del terribile errore
commesso: all'epoca anche lo Stato, munifico in determinati settori come la
chimica, non oppose resistenze alla cessione, quasi a dimostrare che l'Italia,
nel settore informatico, non avrebbe potuto, né dovuto, avventurarsi.
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In Olivetti in quegli anni era in corso lo sviluppo della nuova linea 4000, un
famiglia di elaboratori per uso gestionale destinata ad aziende medio-piccole, che già adottava i
nuovi circuiti integrati. La cessione però non cancellò il progetto, che fu realizzato e
divenne il General Electric GE100, venduto in 4.000 esemplari in tutto il mondo, secondo come vendite solo
all'IBM.
Sull'onda del successo, General Electric acquisì nel 1967 l'intero pacchetto azionario
della OGE che diventò GE Information System Italia, assorbendo la quasi totalità degli
addetti della Divisione Informatica dell'Olivetti. Ma le traversie non erano ancora
finite, perché nel 1970 General Electric cambiò improvvisamente rotta e decise di
puntare su altri settori strategici dell'elettronica, abbandonando il settore informatico.
L'attività informatica fu quindi ceduta alla Honeywell, che nel frattempo stava tentando
di entrare in maniera più forte sul mercato: la nuova società si chiamò Honeywell
Information System Italia. Anche in questo caso l'attività di progettazione non venne
interrotta e il gruppo italiano fu incaricato dello sviluppo del modello 62, appartenente
alla linea 60 della Honeywell, entrato in produzione nel 1974.
In quegli anni cominciò anche una collaborazione con l'industria giapponese che ebbe
importanti ripercussioni in seguito. Honeywell firmò infatti un accordo con la
NEC
(Nippon Electric Company) che concesse ai giapponesi la licenza di produzione della serie
60, compreso il modello L62 prodotto in Italia.
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Il piccolo gruppo di informatici, guidati da Piergiorgio Perotto
(1930-2002), che era rimasto in
Olivetti dopo la cessione alla GE, continuava intanto il suo lavoro di ricerca, non senza
incontrare problemi. Il clima nell'azienda era di assoluta restaurazione, la loro presenza
rappresentava solamente un piccolo focherello da tenere acceso per non rinunciare del
tutto ad un settore che solo poco prima era stato considerato strategico.
Ma in realtà non c'era più nessuna visione positiva del futuro, e i componenti del
gruppetto, impegnati nella progettazione di piccoli sistemi di calcolo elettronici,
erano visti come mangiapane a ufo, gente occupata a discorrere del sesso degli angeli. E
probabilmente l'esistenza di quel gruppo era dovuta soprattutto al disinteresse della GE,
che si occupava di mainframe, nei confronti di quella che oggi chiamiamo informatica
distribuita.
L'obiettivo del gruppo di progettisti era realizzare un calcolatore non destinato agli
specialisti, di basso costo e che stesse su una scrivania (desk-top), che avesse tuttavia
le potenzialità e le caratteristiche di un moderno elaboratore elettronico, ossia
capacità aritmetiche e logiche, capacità di elaborare e registrare in memoria un
programma, una facile interfaccia uomo-macchina, organi di ingresso e uscita, un supporto
magnetico per la registrazione dei programmi.
La strada percorsa fu quella giusta: nel 1965 nacque un nuovo prodotto, la Olivetti P101,
che nonostante nella forma assomigliasse più ad una calcolatrice che a un Pc dei giorni
nostri, del personal aveva molte delle caratteristiche. Prima di tutte quella di essere
uno strumento personale di elaborazione dati, dotato di un programma che poteva essere
registrato in memoria; un supporto per l'introduzione e l'uscita dei dati con schede
magnetiche intercambiabili; una veloce e compatta stampante a tamburo da 30 colonne e un
semplice sistema di programmazione con un linguaggio facile da apprendere in poche ore
anche da un utente non specializzato; inoltre era fornita di una libreria di programmi di
tipo matematico, statistico, finanziario, ecc. Questo era possibile in un mondo dove, fino
ad allora, ai calcolatori avevano accesso solo i superspecialisti in camice bianco,
esperti di linguaggio macchina e abituati a muoversi in ambienti condizionati.
La macchina, presentata a New York all'esposizione Business Manufacturers Association,
destò grande scalpore: in tanti si assieparono attorno al piccolo box della P101,
dedicando solo una visita distratta all'immenso stand che accoglieva la Logos 27. Quest'ultima era il prodotto di bandiera che doveva segnare, dopo l'abbandono
dell'elettronica, la rentrée in forze sul mercato con un prodotto meccanico di alte
prestazioni: insomma, una supercalcolatrice, quanto di più sofisticato un genio della
tecnologia della lamiera poteva concepire.
Prestigiose testate, quali New York Times, Wall Street Journal, Herald Tribune,
Business Week celebrarono la nascita della P101 additandola come primo vero
computer da tavolo.
La P101 era in grado di fare velocissimamente le operazioni aritmetiche elementari, in
più poteva essere programmata dall'utente con un massimo di 120 istruzioni, scelte fra 15
funzioni disponibili (le aritmetiche già citate, di input e di output, di salto). Come
supporto di memorizzazione, scartati nastri e schede perforate per la loro complicazione
elettronica e meccanica, si fece ricorso a schede cartacee con banda magnetica, capaci di
memorizzare fino a 250 caratteri: delle vere innovazioni, se pensiamo che allora non
esistevano né microprocessori, né ROM, né RAM.
Il successo riscosso dalla P101 fu immediato, copriva infatti un settore dell'automazione
che nessuna azienda produttrice di calcolatori aveva mai considerato: l'elaborazione
individuale, che poteva far comodo al progettista o allo scienziato, come alla
dattilografa o all'impiegato. Se infatti una calcolatrice meccanica evoluta poteva costare
anche un milione, il più piccolo dei calcolatori elettronici non scendeva mai al di sotto
dei 20-30 milioni, senza considerare le spese conseguenti di revisione dell'organizzazione
delle aziende e degli uffici: un gap importante che la P101 ricopriva, con il suo costo di
lancio in America di 3.200 dollari. La P101 mantenne il monopolio nella costruzione di
elaboratori individuali fino al 1969, anno in cui la HP presentò il modello
HP 9100: quest'ultima fruttò comunque oltre 900.000 dollari all'Olivetti sotto forma di royalties,
in quanto sfruttava gran parte dei principi della P101 che Perotto aveva intelligentemente
brevettato.
Ma nonostante il successo riscosso dalla P101 (nel giro di poche stagioni ne furono
vendute più di 44.000), la direzione aziendale non cambiò subito rotta: si
sarebbe dovuto, dopo il primo prodotto, far uscire con grande rapidità nuove
versioni aggiornate e allargare la gamma dei prodotti, in modo da occupare tutti
gli spazi, dettando gli standard di fatto del nuovo immenso mercato che andava
delineandosi. Passarono così
due lunghi anni di stasi, segnati anche dalla comparsa delle prime calcolatrici elettroniche
giapponesi, vero attacco diretto al business centrale di Olivetti. Finalmente nel 1967 un
nuovo pool dirigente, formato fra gli altri anche da Perotto, s'incaricò di cambiare
natura all'Olivetti, trasformandola da impresa di macchine per ufficio in azienda di
elettronica e informatica. E i due anni d'attesa, uniti alle difficoltà sociali e
strutturali della riconversione, durata una decina d'anni, furono fatali per l'Olivetti,
che si ritrovò in seguito con un ritardo gravissimo rispetto alla concorrenza.
L'aver perso il treno dell'Informatica al momento della sua nascita è stato un errore che
ancora oggi paghiamo: non a caso in seguito l'industria informatica è stata definita
"motore trainante dell'attività produttiva di un paese", grazie al fatto che
dal suo sviluppo conseguiva la crescita culturale ed intellettuale e parallelamente lo
sviluppo di altre attività industriali o terziarie indotte o comunque sollecitate dal
mercato dei grandi calcolatori.